DESCRIZIONE DEL TERRITORIO E CENNI STORICI SULLA CITTÀ DI LIVORNO
in questa pagina il testo è di Francesco Bonini

Livorno è situata nella pianura alluvionale dell'Arno, fra i torrenti Ugione e Chioma. Si trova sopra a una panchina discontinua e cuneiforme che nei secoli ha favorito l'interramento di vaste zone marine, una volta comprese nell'antico Sinus Pisano. A compiere questa opera sono stati i riflussi fluviali di sabbie e alghe, quindi essa non va attribuita al fenomeno del bradisismo che ha interessato la zona della Meloria.

La città, il cui impianto è di tipo moderno, è contenuta dentro un semicerchio chiuso a nord e a sud dai confini territoriali posti sulla costa. Uno si trova nei pressi della foce del Chioma, passata Quercianella, località separata dalla città dal promontorio del Romito, posto a picco sul mare. L'altro sta nei pressi dello sbocco dello Scolmatore d'Arno. Sono rispettivamente a filo del territorio di Rosignano Marittimo e di Pisa. Dalla parte di terra la città confina con il sistema collinare che le fa da corona. Nel lembo settentrionale le fa da termine il Monte Massi; nela parte centrale della corona la Valle Benedetta e nel lembo meridionale Il Gabbro, dove si trova pure l'alveo del torrente Chioma. Il sistema collinare è solcato da altri piccoli corsi di acqua. Il Felciaio assieme con il torrente Ardenza finisce sulla costa a sud della città. Il Cigna e l'Ugione vanno a confondere le loro acque con quelle salmastre sulla costa a nord dell'abitato nella zona portuale nei pressi della Torre del Marzocco. La complessiva superficie del territorio è di circa 104 Kmq ciascuno dei quali è mediamente abitato da 1687 persone. L'altezza massima è quella del Poggio della Lecceta, nella zona della Valle Benedetta con metri 462, quella minima è il livello del mare; il centro cittadino si trova a tre metri su di esso.

Si pensa che il vero e proprio villaggio di Livorno sia sorto attorno all'anno Mille, guardato e protetto da una antica Rocca, probabilmente di origine romana. La fortificazione si trovava presso a poco all'altezza del monumento a Ferdinando I con i Quattro Mori; l'abitato sorgeva alle spalle occupando una modesta area corrispondente all'ingresso della attuale via Fiume.

Da un codice del 1772 si apprende l'esistenza di una pieve, consacrata a Santa Giulia.

Resta comunque il fatto che le varie leggende riguardanti le origini di Livorno sono praticamente incontrollabili e sono state in gran parte favorite dai Medici con l'intenzione di nobilitare la città ed il Porto al quale tenevano in particolar modo. La leggenda attribuisce l'origine del nome ad un tempio costruito dai Lidi e dedicato ad Ercole Labrone, ma è probabile che il primitivo villaggio alto-medievale abbia preso il nome dallo scalo delle veloci navi Liburne. Nel 1103 il "Castrum Liburni" fu ceduto a Pisa dalla Contessa Matilde. Frazione dell'adiacente Porto Pisano (già Etrusco e Romano) passò sotto il dominio di Pisa che, nel 1392, la cinse di mura. In seguito alla pace di Lucca, fu assegnata alla città di Genova che, nel 1421, la cedette a Firenze. Con i Medici, Livorno conobbe il suo massimo splendore soprattutto durante il dominio di Ferdinando I. Il 28 marzo 1577 è la data che segna l'inizio di una nuova forma urbanistica. La "Città Ideale" posta più a sud e più a levante della precedente, seguiva il disegno pentagonale del Buontalenti (ripresa in seguito e modificata dal Cucurrano). In seguito alla costruzione della Fortezza Vecchia (1521), fu abbattuta l'antica pieve di S. Maria e Giulia e la chiesa di S. Antonio divenne il primo Duomo di Livorno. La città, che è stata definita il capolavoro dei Medici, continuò a svilupparsi anche sotto i Lorena. Distrutta in gran parte (80%) durante la seconda guerra mondiale, è stata completamente rinnovata nel dopoguerra.

LO STEMMA

Nello stemma di Livorno si vede un umile castello sul mare. Livorno infatti, non fu per secoli altro che un umile castello, una semplice fortificazione per difendere la costa e soprattutto il porto di Pisa dalle incursioni dei Saraceni e dei pirati. Oggi Livorno è invece una delle città più popolose della toscana, e la sua fortuna cominciò (se vogliamo anche ironicamente) con le sfortune di Pisa: quando infatti il porto di quest'ultima, che era stata una delle più gloriose repubbliche marinare, si interrò completamente per le sabbie dell'Arno, Ferdinando I, Granduca di toscana, ordinò la costruzione di un porto artificiale che sostituisse Pisa. La rada del castello di livorno parve la più adatta perché più vicina a Firenze, ma furono necessarie potenti costruzioni per difenderla dall'arrivo delle sabbie dell'Arno e dai venti impetuosi come il libeccio. Ma Ferdinando primo fece ancor di più, con solenne cerimonia nel 1606 proclamò città il castello di Livorno e concesse ai suoi abitanti, presenti e futuri, esenzioni dalle tasse e privilegi speciali, invitando la gente di ogni popolo, fosse pure ebrea, turca o mora a stabilirsi e a trafficare a livorno. Così la città cominciò a crescere rapidamente e il porto, continuamente allargato e potenziato, divenne sempre più importante.

LIVORNO E I VENTI

Il vento sta di casa a Livorno nella torre del Marzocco, che è bellissima, alta, ottagonale, girata agli otto venti principali. Il vento che arriva da ogni parte del mondo, più o meno stanco, più o meno puntuale trova la sua casa di marmo con scritto il proprio nome in bei caratteri romani ed entra.

Quando un vento arriva un altro va via e chiude a chiave la porta. Sta un po' al terrazzino a guardare il mare, a guardare Livorno, poi prende lo slancio e non si volta più. Ma quando i venti stanno in riposo, anche se sono rapinosi diventano cordiali e chiacchieroni e si raccontano avventure tutte meravigliose, perché sanno di lontananze sconosciute vedute dall'alto. Le miserie degli uomini stanno con gli uomini attaccate agli uomini terra terra, ma i venti sfiorano la terra e volano alti nel cielo infinito e vedon cose grandi e soltanto quelle.

Ci sono venti che una capatina ce la fanno ogni giorno nella casa sul mare, e ci son quelli che arrivano ogni tanto all'improvviso. Di lontano scorgono la diritta bianca torre che emerge come un faro acceso, e la distanza è già scorciata dal piacere. Allora, moltiplicano la velocità e arrivano anelanti e felici a battere difilate nella facciata liscia che porta scritto in vetta il loro nome.

Lo Scirocco vien dalla Siria ed è il vento più gradito nell'inverno, tiepido com'è. Quando leggero arriva di passaggio dopo le gelate della Tramontana che secca le verdure e la pelle, far nascere l'illusione che il peggio sia passato e sognare al solicchio di straccatura la primavera e i fiori. Ma poi lascia la pioggia e la pioggia da noia.

Il libeccio vien dalla Libia quando gli pare e piace, ma quando arriva la fa da padrone e per tre giorni e per tre notti sta poco poco in casa, dov'è conosciuto col nome di Gherbino. Lui è un vento rabbioso e quando c'è, gli altri venti non tentano di contrastarlo e non si fan sentire. La casa del Marzocco allora è deserta o è come se fosse così, perché i venti che sono rimasti dentro sbarrano la porta e non rispondono nemmeno alle chiamate urgenti.

Il libeccio rimasto padrone si abbandona alla sua voluttà e urlando terribilissimo picchia in pieno su Livorno: piega e schianta oleandri, pini e tamerici, s'infila pere le strade sbatacchiando persiane, scoperchiando tetti, facendo il diavolo a quattro, alzando agli ultimi piani le spazzature che non mancano mai, intontendo gli umani che camminano, colla testa protesa o buttata all'indietro, agguantandosi cappelli e vestiti che tendono a scappare. Ma dove il libeccio fa cose stupendissime è sul mare, che fa ribollire e diventare verdaccio del colore dell'erba andata a male. Ne fa cosa gli pare: lo piglia, lo pigia, lo solleva e lo schiaffa contro gli scogli, contro i moli, oltre le spallette sulle strade, lasciando alghe e velelle a puzzare. Non dà tregua e tutto è in subbuglio: i vapori restano al largo, nel porto si rinforzano gli ormeggi, gli osservatori scrutano il mare, gli arrisicatori fanno la chiama e ingrassano gli scalmi. Per tre giorni e per tre notti il libeccio imperversa e rovina da essere maledetto. E invece i livornesi non imprecano e lo lasciano fare. Perché quello è il loro vento: è il vento gagliardo che sempre soffiò sulla loro terra, è il vento che purifica la loro aria, è il vento che odora di mare e di oasi africane, è il vento che salvò i loro padri, è il vento spettacolare.

Quando tira il libeccio i livornesi vanno a vedere il mare che salta il frangiflutti. Giochi d'acqua grandiosi. I cavalloni verdi arrivano impennati con la criniera bianca arricciolata. Stanno frementi a guardare con mill'occhi, a guardare l'abisso che li chiama, e si tuffano scuotendo al criniera che forma sopra un fondo smeraldo intorbidato una candida trina che si compone, che si scompone, sempre più varia, sempre più larga, sempre più mossa in un prodigio di improvvisazioni. Poi da quella fluida cangiante meraviglia gli indomiti cavalli riergono la testa, e di nuovo sferzati riprendono l'abbrivio e gonfiano sbavando e si alzano inpettiti e vanno impetuosi a rompersi e finire in uno spruzzo torbo e fragoroso che sventaglia lontano. S'aprono nel cielo plumbeo degli squarci celesti e saettano raggi che illuminano il mare alzando una fumosa nuvola d'argento. Il sibilo insistente nelle lunghe folate assorda e mozza il respiro nel petto. Le miti tamerici abbassano la chioma e i pini nerboruti resistono superni. Ma poi tutte le piante finiscono per cedere al ventaccio scortese che senza garbo né grazia si fa chiamar Garbino. Poi dopo tre giorni e tre notti di schiribizzi e follie il libeccio se ne va da livorno e lascia il tempo che trova.