LE ORIGINI DEL NOSTRO CAMMINARE
Era il lontano 1989, quando Isabel una ragazza di New York, all’epoca unita ad un più statico siciliano di nome Salvatore, ci invitarono ad una “passeggiata” sul Monte Morello…….incredibile lei appassionata di trekking, ci raccontava che molte zone della Toscana erano incredibilmente simili al Canada dove lei aveva vissuto per certo un periodo.
Io e Silvia, all’epoca del già citato invito, non avevamo la benché minima idea di quello a cui saremmo andati incontro….credevamo che fosse una passeggiata normale con in più un semplice pic-nic finale allegato; anche il nostro abbigliamento non era proprio il più adatto, io avevo un pesante cappotto bianco e scarpe da ginnastica e Silvia ai piedi enormi anfibi neri. Sicuro che non fu un trekking di otto ore e mille metri di dislivello, ma certamente per noi e soprattutto per me, fu una botta di fatica tremenda. Silvia si fece completamente abbindolare dai sentieri e da Isabel e fini molto presto per comprare scarponi e zaino e riempire i suoi scaffali di guide trekking e cartine 1:25.000.
Infine, la giornata continuò tra imprecazioni del sottoscritto, ed idee per nuove avventure escursionistiche da parte di Silvia che aveva trovato così un modo nuovo per torturarmi in estenuanti trekking chilometrici negli anni che sarebbero trascorsi.
Altre uscite seguirono la prima, una in particolare segnò completamente l' ormai imminente tragico destino, fu un’escursione con Isabel e il suo compagno nella zona della Calvana che fini per legare completamente nella mente di Silvia la passione per il trekking e del camminare lungo sentieri.
Io per mio conto, in quel periodo, ero portato molto più che adesso ad accontentare la Silvia, cioé molto giovane e innamorato……accidenti……le levatacce mattiniere si sprecavano e gli unici momenti liberi erano in qualche bivio mal segnato in qualche sperduto anfratto boschivo dell’Appennino toscano, con in più l’immancabile tremenda angoscia di perdermi ad ogni passo.
Isabel e Salvatore presto si separarono e si persero i contatti con loro, e francamente non sappiamo che fine abbiano fatto, e da quel momento non avemmo più guide “spirituali”, restammo soli. Silvia con un’immensa montagna di idee di nuovi percosi trekking da fare e io a cercare una montagna di scuse per evitarli.
Soli, camminavamo sempre in piena solitudine, ed è questo che ora mi viene da ricordare, forse anche per la nostra età, io nel 1990 avevo ventuno anni e figuriamoci se i miei amici e coetanei volevano condividere i loro momenti liberi e di svago in sentieri montani chilometrici con dislivelli estenuanti, magari il tutto condito da levatacce mattutine…. manco per idea!
Dunque all’inizio almeno per i primi cinque o sei anni, non ho amato per niente il trekking, mi pesava e spesso camminare lo consideravo snervante e inutile….fatica senza senso, tempo perso. Per fortuna qualche volta qualcuno si aggregava ……. rare erano infatti le occasioni di condividere i percorsi che la Silvia di tanto in tanto mi proponeva. Gli amici puntualmente dopo aver provato una o massimo due volte declinavano giustamente gli inviti successivi con molteplici ed mirabolanti scuse.
Pian piano però qualcosa incominciava ad entrarmi in testa ….. quella indifferenza e fastidio che provavo ogni volta che mi mettevo gli scarponi, cominciava a far posto ad un distratto e sottile strano piacere. Le cose che anche a distanza di lungo tempo l’una da l’altra mi sorprendevano di più erano i segni delle stagioni, i colori mutanti della natura e la familiarità che i luoghi cominciavano ad assumere, quel sottile riconoscimento che proviene dalla conoscenza dei sentieri, da un posto magari visitato tempo prima, con un altro che stavo scoprendo in quel momento. Nel lento procedere dei nostri trekking si trovavano vecchie torri o pievi abbandonate, Silvia mi raccontava molte cose dei posti che visitavamo, e personaggi Appenninici come Etruschi, Liguri e antichi Romani, Longobardi cominciavano a prendere forma ed echeggiare nella mia mente e nel fitto del bosco….mi immaginavo confini da difendere, battaglie, scaramucce, imboscate e rumori d’ armi, suoni di tromba e trame nebbiose di tempi che furono.
Come dicevo, anche qualche amico o collega di lavoro si aggregava alle nostre “spedizioni”, io e Silvia ci tenevamo, come oggi in fondo, a condividere e far apprezzare quei luoghi ad altri, magari già visitati poco tempo prima, per noi questo è importante ancora adesso. Spesso ci chiedevamo come molte persone non apprezzassero quel genere di attività: i passi e il lento procedere alla scoperta di paesaggi poco noti, con forme vagamente “esotiche” cioè che, non ti aspetteresti a quaranta cinquanta chilometri da casa.
l' Avventura: un pernottamento all'aperto
Nasceva però l’esigenza di vivere un po’ più a fondo l’avventura, infatti fino al quel momento le nostre escursioni si limitavano all’arco di una sola giornata.
Così cominciammo a sognare e di conseguenza a programmare itinerari che durassero appunto, oltre un giorno.
Decidemmo per l’Acqua Cheta, eravamo in sei ragazzi, che avevano l’intenzione di dormire la notte nel bosco con la tenda, ma mai avrebbero immaginato quello che li aspettava a breve e credetemi, non furono proprio sogni d’oro.
Eravamo partiti da Firenze, in un pomeriggio di sabato di inizio giugno del 1996, direzione San Godenzo. Lasciate le auto, cominciammo a camminare in salita verso la Colla della Maestà, il pomeriggio era soleggiato e caldo, fatica e sudore non tardarono ad arrivare. Alla nostra comitiva si era nel frattempo aggregato anche uno strano cane pastore tedesco con la testa di lupo italiano, che si mostrò subito molto affabile e affettuoso. Superato il crinale, chiamato Colla della Maestà, scendemmo pian piano per una strada bianca, una vecchia carrareccia che porta dopo qualche chilometro al famoso torrente chiamato Acqua Cheta; ma non vi arrivammo quel giorno, si decise appunto di pernottare e ci fermammo sopra un piccolo altopiano ricco di erba alta, dove si poteva godere di un bel panorama appenninico; piazzammo tre tende e in breve mangiammo la nostra fugace cena. Tra parole e risa, ci calammo più comodamente possibile all’interno dei nostri rifugi di tela.
La notte incalzò e all’esterno era ormai buio completo, pian piano l’aria andava riempiendosi in modo crescente di suoni e rumori sconosciuti sempre più intensi nella notte nera, vibrazioni che certamente ci stavano trasmettendo ansia e mistero.
Sentire rumori in un bosco di notte, quando la luna che illumina le tenebre non c’è, provocano dentro di noi meccanismi ansiogeni; l’ignoto è palpabile perché la vista, il senso per tutti gli uomini più immediato, è inutile. Vedere fuori dagli abitacoli era praticamente impossibile, facevamo silenzio, ma mentre l’udito si faceva sempre più fine, i rumori si amplificavano e la paura e il mistero nelle nostre menti prendeva il sopravvento, i cigolii degli alberi spettrali mossi dal vento e gli occhi che non penetrano che il nero della notte, fecero il resto.
L' angoscia, una scossa elettrizzante di paura crescente e rapida inaspettata scese su tutto il gruppo all'interno delle tende sigillatissime e che in quel momento, avrebbe pagato chissà qual cifra per non essere più lì, domandandosi se probabilmente fosse stato commesso un grave errore che poteva anche risultare fatale….......fu terrore totale! Quando ad un certo punto, ahimé, il dramma avvenne!
Il furioso scalciare e il continuo frusciare sulla tenda vicina, con rantolii e fauci digrignati, raspamenti e tenui strillii, si scagliò su di noi …….gelo e qualcuno urlettare: “aiuto!!! aiuto!!!aiut!!”, sentii immediatamente parole frenetiche glassate di paura in crescendo: “aprite!!!! Aprite! Apriiiiiiiiiiiiiii!!! Era mio cugino Marco che dalla sua tenda accanto, dove avrebbe dovuto riposare da solo, schizzò letteralmente tra me e la Silvia nel nostro riparo; restammo tutti e tre irrigiditi e atterriti, con basse parole qualcuno disse: “sarà un cinghiale, magari ha sentito odore di mangiare!” Intanto gli altri tre amici, della terza tenda, lanciavano sommessi e tenui brusii di chi non vuol farsi sentire dal “killer” in agguato.
Dopo circa un quarto d’ora i rantolii e gli ululati cessarono. Ricominciammo a muoverci lentamente all’interno delle tende, ma parlavamo sempre sotto voce. Prendemmo torce e coraggio, tutti e sei uscimmo lentamente come ladri braccati dai sottili rifugi.
La tenue luce delle torce rivelò subito il dramma consumato, incredibilmente quello che pareva nelle nostre fantasie un cinghiale imbestialito, davanti ai nostri occhi si rivelò solo un piccolo capriolo morto e mezzo squartato che probabilmente allontanatosi dalla madre, ci aveva rimesso la vita. Il colpevole ansimante e ancora eccitato per la caccia, sopra la sua vittima.
Il caro compagno di quella avventura, cane pastore tedesco con la testa di lupo italiano, aveva ora il muso mezzo insanguinato e la piccola e tenera creatura esanime, tra le sue zampe: sbranata.
Fu proprio una terribile, lunga notte, e tantissimi i discorsi e commenti, soprattutto la mattina dopo, con il sole già alto e le paure della notte ormai dissipate. Raggiungemmo così la nostra meta: la Cascata dell’Acqua Cheta.